Premesso che di solito non me ne importa granché di come passano la notte i potenti, lo pensavo del caso Sircana, del caso Daddario e non di meno lo penso del caso Marrazzo.
Quest'ultimo però ha elementi di diversità notevoli, non ci troviamo solo di fronte allo sputtanamento totale di un governatore, ma bensì a qualcosa di più grave.
Il governatore del Lazio di fatto in mano a dei ricattatori. Come scrive Piero Ostellino, questo non può non gettare delle ombre sul suo operato degli ultimi mesi, ne' sarà stato influenzato?
Di fronte a questo diviene superflua, la mia curiosità circa le reazioni della sinistra e di Repubblica: “10 domande a Marrazzo non gliele fate? O forse qui di oscuro c'è ben poco e quindi c'è poco da domandare? Ci sarà il solito doppio pesismo da parte del popolo della sinsitra?”
Come nota a margine non posso fare a meno di dire che ieri sera gongolavo, poiché se c'è un politico che ho trovato antipatico e borioso, con la verità scritta in fronte ed il vangelo in mano (vangelo scritto da lui) è Piero Marrazzo.
E quindi la vena sadica che scorre in me non poteva non gioire di fronte alla sua caduta.
Quest'oggi quella vena si è seccata pensando a quella poveretta della moglie che con tre figli, doveva dare la notizia riguardante il marito al telegiornale.
Faccio un inchino alla professionalità ed alla forza della moglie di Marrazzo, e chiedo scusa a lei per i miei sentimenti meschini.
sabato 24 ottobre 2009
sabato 17 ottobre 2009
Non se ne' può proprio più.
Leggo del conflitto politico in atto sulla giustizia italiana e mi viene tanta voglia di sbattere la testa contro lo spigolo del muro. (O forse di sbattere tra loro un paio di teste nella speranza che il "giudizio" vi entri.)
Purtroppo il clima è rovente, e la colpa è di entrambe le fazioni, perché ognuno ha le sue colpe, dai PM showman, al premier che fa di tutto per inimicarsi la magistratura, ad una magistratura intesa come ordine e casta che difende i propri interessi.
Fatto sta che la giustizia è un problema, che la magistratura è autoreferenziale (e che la politica pretenderebbe di tornare ad esserlo), il giudice che rimise in libertà il figlio di Rina non ha subito particolari danni dalla sua scellerata e reiterata condotta, che i processi sono lunghi, che i CTU che di fatto decidono una serie di cause hanno evidenti conflitti di interesse, e che i giudici continuano a compensare le spese nei processi civili così che ci si ritrova sempre più spesso a vantare crediti che costano più se riscossi che se abbandonati.
La gestione della giustizia è molto importante, e non può essere autoreferenziale, nè può essere controllata dal governo, o eletta per il rischio dell'infiltrazione mafiosa, insomma si dovrebbe avere un buono e sano equilibrio di poteri.
I problemi sono tanti e seri, e la politica è attenta ai bisogni del premier anziché a quelli del cittadino, e se Dio non voglia, la maggioranza decida di toccare e riformare qualcosa subito le lobby insorgono gridando allo scandalo, al pericolo per la democrazia...ecc...
Si può andare avanti così?
Purtroppo il clima è rovente, e la colpa è di entrambe le fazioni, perché ognuno ha le sue colpe, dai PM showman, al premier che fa di tutto per inimicarsi la magistratura, ad una magistratura intesa come ordine e casta che difende i propri interessi.
Fatto sta che la giustizia è un problema, che la magistratura è autoreferenziale (e che la politica pretenderebbe di tornare ad esserlo), il giudice che rimise in libertà il figlio di Rina non ha subito particolari danni dalla sua scellerata e reiterata condotta, che i processi sono lunghi, che i CTU che di fatto decidono una serie di cause hanno evidenti conflitti di interesse, e che i giudici continuano a compensare le spese nei processi civili così che ci si ritrova sempre più spesso a vantare crediti che costano più se riscossi che se abbandonati.
La gestione della giustizia è molto importante, e non può essere autoreferenziale, nè può essere controllata dal governo, o eletta per il rischio dell'infiltrazione mafiosa, insomma si dovrebbe avere un buono e sano equilibrio di poteri.
I problemi sono tanti e seri, e la politica è attenta ai bisogni del premier anziché a quelli del cittadino, e se Dio non voglia, la maggioranza decida di toccare e riformare qualcosa subito le lobby insorgono gridando allo scandalo, al pericolo per la democrazia...ecc...
Si può andare avanti così?
giovedì 18 giugno 2009
Perchè andare a Votare al Referendum
Mi limito ad aggiungere due parole a quanto scrive Angelo Panebianco e che riporto nel post precedente.
Voglio far notare a tutti coloro che si degneranno di riflettere su questo referendum, che come al solito la stampa e tutti i media, trascurano e tralasciano di informare il cittadino circa i meccanismi ed il funzionamento del Referendum.
Questo a parer mio dovrebbe far riflettere sia sull'annoso problema dell'informazione in Italia che sull'evidenza di un paese influenzato dai poteri forti che sono ancor più forti per la mancanza di cultura e del senso civico del comune cittadino.
Con questo cosa voglio dire? Che se non c'è informazione è perché la gran parte dei partiti (partitocrazia) non vuole che ci sia perché questo Referendum scompaginerebbe interi blocchi di potere consolidato nel paese.
E' mia opinione che questo sia sufficiente per votare SI a tutti e 3 i quesiti referendari, ma ciò non è tutto, perché a questo motivo si possono aggiungere tranquillamente quelli di Panebianco e tanti altri.
Sarebbe bello se una volta tanto i miei concittadini, andassero a votare invece di andare al mare.
Ma il popolo bue non farà altro che brucare, ed io come al solito andrò a votare perché non voglio perdere il diritto di sentirmi dissenziente rispetto agli attuali assetti di potere.
Io non sarò colpevole di favoreggiamento.
Voglio far notare a tutti coloro che si degneranno di riflettere su questo referendum, che come al solito la stampa e tutti i media, trascurano e tralasciano di informare il cittadino circa i meccanismi ed il funzionamento del Referendum.
Questo a parer mio dovrebbe far riflettere sia sull'annoso problema dell'informazione in Italia che sull'evidenza di un paese influenzato dai poteri forti che sono ancor più forti per la mancanza di cultura e del senso civico del comune cittadino.
Con questo cosa voglio dire? Che se non c'è informazione è perché la gran parte dei partiti (partitocrazia) non vuole che ci sia perché questo Referendum scompaginerebbe interi blocchi di potere consolidato nel paese.
E' mia opinione che questo sia sufficiente per votare SI a tutti e 3 i quesiti referendari, ma ciò non è tutto, perché a questo motivo si possono aggiungere tranquillamente quelli di Panebianco e tanti altri.
Sarebbe bello se una volta tanto i miei concittadini, andassero a votare invece di andare al mare.
Ma il popolo bue non farà altro che brucare, ed io come al solito andrò a votare perché non voglio perdere il diritto di sentirmi dissenziente rispetto agli attuali assetti di potere.
Io non sarò colpevole di favoreggiamento.
Perchè Votare si al Referendum
"Referendum, antidoto ai troppi partiti
Gli italiani saranno chiamati il 21 giugno a votare per un referendum che propone di modificare la legge elettorale in vigore. Come risulta dai sondaggi, tanti italiani sono ancora disinformati, non sanno nulla dei quesiti referendari. E, inoltre, una gran parte delle forze politiche li incita alla astensione. Anche in queste sfavorevoli circostanze è però giusto continuare a discuterne.
La mia prima osservazione è che diversi critici del referendum hanno avanzato una obiezione che non sembra leale. Hanno sostenuto che quello che uscirebbe da una vittoria dei «sì» nel referendum non sarebbe comunque un buon sistema elettorale. L'obiezione non mi pare leale perché in Italia non esiste l'istituto del referendum propositivo. Non si può dunque sottoporre al voto popolare il sistema elettorale che si preferisce (io, per esempio, preferisco di gran lunga i sistemi elettorali maggioritari, con collegi uninominali). Col referendum abrogativo si può solo incidere su leggi esistenti. Il referendum tenta semplicemente di migliorare quella che in tanti giudichiamo una pessima legge elettorale. Non può fare nulla di più. Per onestà nei confronti dei lettori devo precisare che mentre scrivo questo articolo mi trovo in flagrante conflitto di interessi. Faccio parte del comitato promotore del referendum e certamente intendo difendere, insieme al referendum, la coerenza e la validità della mia scelta.
Che cosa intendevano (intendevamo) fare i proponenti del referendum, soprattutto con il quesito più importante, quello che chiede di spostare dalla coalizione di partiti alla singola lista il premio di maggioranza? Intendevano (intendevamo) contrastare l'aspetto più grave e pericoloso della legge elettorale in vigore: il fatto che essa non contiene alcun anticorpo contro la frammentazione partitica (e ricordo che fra tutti i pericoli che può correre una democrazia quelli che vengono da un eccesso di frammentazione partitica sono di gran lunga i più gravi). Ma, si obietterà: alle ultime elezioni, nonostante la legge in vigore, la frammentazione partitica è stata drasticamente ridotta. E’ vero ma la causa è stata esclusivamente una decisione politica: la scelta di Walter Veltroni di sbarazzarsi dell'antica coalizione di centrosinistra e di puntare sul «partito a vocazione maggioritaria».
Fu quella decisione che, ricompattando la sinistra (anche se non del tutto: Veltroni commise poi il gravissimo errore di allearsi con Di Pietro), obbligò anche la destra a un analogo ricompattamento (con la nascita del Popolo della Libertà). Ma ora Veltroni è fuori gioco e anche il partito a vocazione maggioritaria è stato messo in soffitta.
Alle prossime elezioni il Partito democratico tornerà, presumibilmente, a una più tradizionale politica delle alleanze (ed è plausibile che, per diretta conseguenza, si manifestino tendenze disgregative anche a destra). La legge elettorale in vigore tornerà allora a sviluppare le sue letali tossine, alimenterà di nuovo la frammentazione partitica. Se non si fa qualcosa (e l'unico «qualcosa » possibile è, al momento, il referendum) il sistema politico italiano sarà di nuovo tra pochi anni, come è stato negli ultimi decenni (fino al 2008), il più frammentato dell'Europa occidentale.
Come sempre quando si ragiona di sistemi elettorali le critiche più serie e argomentate alla proposta referendaria sono state avanzate da Giovanni Sartori. Sartori fa due obiezioni. La prima: con il sistema elettorale che uscirebbe dal referendum un partito che raggiungesse, poniamo, solo il trenta per cento dei voti potrebbe aggiudicarsi il premio di maggioranza conquistando la maggioranza assoluta dei seggi. La seconda: poiché il premio di maggioranza va alla lista più votata la legge verrebbe aggirata con la formazione di liste-arlecchino formate da tanti partiti che si metterebbero insieme solo per conquistare il premio di maggioranza e si dividerebbero di nuovo il giorno dopo le elezioni. Si tratta di obiezioni serie ma mi permetto di fare due osservazioni. La prima è che, certamente, è in teoria possibile che un partito con solo il trenta per cento dei voti conquisti il premio di maggioranza e quindi la maggioranza assoluta dei seggi. Però, questo è vero anche nel caso dei sistemi maggioritari: nulla vieta, in teoria, che un partito si aggiudichi la maggioranza dei collegi (e quindi la maggioranza dei seggi) ottenendo però, su scala nazionale, un numero di voti limitato. In un sistema maggioritario ciò può accadere se nei collegi sono presenti molti partiti. Più in generale, nei sistemi maggioritari, è quasi sempre la minoranza elettorale più forte che si aggiudica la maggioranza dei seggi.
In pratica, però, non credo che se si votasse con il sistema elettorale che uscirebbe dal referendum correremmo questo rischio: gli elettori sarebbero portati a concentrare i loro voti sulle due formazioni più forti (è l'effetto del cosiddetto «voto utile» o strategico). Mi azzardo addirittura a fare una previsione: se si votasse con il sistema elettorale proposto dal referendum ci sarebbe un duello all'ultimo voto fra Popolo della Libertà e Partito democratico, e il partito che fra i due uscisse perdente supererebbe comunque la soglia del quaranta per cento dei voti (per effetto, appunto, del «voto utile»).
E vengo al problema delle liste-arlecchino. Sartori ha ragione: molti piccoli partiti si aggregherebbero al carro dei due partiti più grandi. Però, la loro libertà d'azione dopo il voto verrebbe compromessa. Una cosa, per un piccolo partito, è disporre di un proprio simbolo e di autonomo finanziamento pubblico. Una cosa completamente diversa è rinunciare al simbolo (e, con esso, a un rapporto diretto, non mediato, col proprio elettorato) e dover per giunta fare i conti, per la spartizione dei finanziamenti, con il gruppo dirigente del grande partito a cui ci si è aggregati. Non credo che, dopo le elezioni, quei piccoli partiti disporrebbero ancora di molta libertà d'azione. Se così non fosse, d'altra parte, perché mai la Lega dovrebbe essere, come è, così ferocemente contraria al referendum? E perché mai Di Pietro (oggi politicamente molto più forte rispetto a quando vennero raccolte le firme del referendum) si sarebbe ora schierato per il «no» dopo avere sostenuto per tanto tempo il «sì»?
I nemici di Berlusconi temono che, con il nuovo sistema, egli possa rafforzarsi ulteriormente. Osservo che è sbagliato giudicare i sistemi elettorali alla luce di preoccupazioni politiche contingenti. Prima o poi, Berlusconi dovrà comunque lasciare il campo. Invece, il rischio, esasperato dall'attuale legge elettorale, di un'eccessiva frammentazione partitica peserà a lungo su di noi. Se non riusciremo, con il referendum, ad aiutare la classe politica a porvi rimedio."
Corriere della Sera.it articolo scritto da Angelo Panebianco il 13.06.2009
Gli italiani saranno chiamati il 21 giugno a votare per un referendum che propone di modificare la legge elettorale in vigore. Come risulta dai sondaggi, tanti italiani sono ancora disinformati, non sanno nulla dei quesiti referendari. E, inoltre, una gran parte delle forze politiche li incita alla astensione. Anche in queste sfavorevoli circostanze è però giusto continuare a discuterne.
La mia prima osservazione è che diversi critici del referendum hanno avanzato una obiezione che non sembra leale. Hanno sostenuto che quello che uscirebbe da una vittoria dei «sì» nel referendum non sarebbe comunque un buon sistema elettorale. L'obiezione non mi pare leale perché in Italia non esiste l'istituto del referendum propositivo. Non si può dunque sottoporre al voto popolare il sistema elettorale che si preferisce (io, per esempio, preferisco di gran lunga i sistemi elettorali maggioritari, con collegi uninominali). Col referendum abrogativo si può solo incidere su leggi esistenti. Il referendum tenta semplicemente di migliorare quella che in tanti giudichiamo una pessima legge elettorale. Non può fare nulla di più. Per onestà nei confronti dei lettori devo precisare che mentre scrivo questo articolo mi trovo in flagrante conflitto di interessi. Faccio parte del comitato promotore del referendum e certamente intendo difendere, insieme al referendum, la coerenza e la validità della mia scelta.
Che cosa intendevano (intendevamo) fare i proponenti del referendum, soprattutto con il quesito più importante, quello che chiede di spostare dalla coalizione di partiti alla singola lista il premio di maggioranza? Intendevano (intendevamo) contrastare l'aspetto più grave e pericoloso della legge elettorale in vigore: il fatto che essa non contiene alcun anticorpo contro la frammentazione partitica (e ricordo che fra tutti i pericoli che può correre una democrazia quelli che vengono da un eccesso di frammentazione partitica sono di gran lunga i più gravi). Ma, si obietterà: alle ultime elezioni, nonostante la legge in vigore, la frammentazione partitica è stata drasticamente ridotta. E’ vero ma la causa è stata esclusivamente una decisione politica: la scelta di Walter Veltroni di sbarazzarsi dell'antica coalizione di centrosinistra e di puntare sul «partito a vocazione maggioritaria».
Fu quella decisione che, ricompattando la sinistra (anche se non del tutto: Veltroni commise poi il gravissimo errore di allearsi con Di Pietro), obbligò anche la destra a un analogo ricompattamento (con la nascita del Popolo della Libertà). Ma ora Veltroni è fuori gioco e anche il partito a vocazione maggioritaria è stato messo in soffitta.
Alle prossime elezioni il Partito democratico tornerà, presumibilmente, a una più tradizionale politica delle alleanze (ed è plausibile che, per diretta conseguenza, si manifestino tendenze disgregative anche a destra). La legge elettorale in vigore tornerà allora a sviluppare le sue letali tossine, alimenterà di nuovo la frammentazione partitica. Se non si fa qualcosa (e l'unico «qualcosa » possibile è, al momento, il referendum) il sistema politico italiano sarà di nuovo tra pochi anni, come è stato negli ultimi decenni (fino al 2008), il più frammentato dell'Europa occidentale.
Come sempre quando si ragiona di sistemi elettorali le critiche più serie e argomentate alla proposta referendaria sono state avanzate da Giovanni Sartori. Sartori fa due obiezioni. La prima: con il sistema elettorale che uscirebbe dal referendum un partito che raggiungesse, poniamo, solo il trenta per cento dei voti potrebbe aggiudicarsi il premio di maggioranza conquistando la maggioranza assoluta dei seggi. La seconda: poiché il premio di maggioranza va alla lista più votata la legge verrebbe aggirata con la formazione di liste-arlecchino formate da tanti partiti che si metterebbero insieme solo per conquistare il premio di maggioranza e si dividerebbero di nuovo il giorno dopo le elezioni. Si tratta di obiezioni serie ma mi permetto di fare due osservazioni. La prima è che, certamente, è in teoria possibile che un partito con solo il trenta per cento dei voti conquisti il premio di maggioranza e quindi la maggioranza assoluta dei seggi. Però, questo è vero anche nel caso dei sistemi maggioritari: nulla vieta, in teoria, che un partito si aggiudichi la maggioranza dei collegi (e quindi la maggioranza dei seggi) ottenendo però, su scala nazionale, un numero di voti limitato. In un sistema maggioritario ciò può accadere se nei collegi sono presenti molti partiti. Più in generale, nei sistemi maggioritari, è quasi sempre la minoranza elettorale più forte che si aggiudica la maggioranza dei seggi.
In pratica, però, non credo che se si votasse con il sistema elettorale che uscirebbe dal referendum correremmo questo rischio: gli elettori sarebbero portati a concentrare i loro voti sulle due formazioni più forti (è l'effetto del cosiddetto «voto utile» o strategico). Mi azzardo addirittura a fare una previsione: se si votasse con il sistema elettorale proposto dal referendum ci sarebbe un duello all'ultimo voto fra Popolo della Libertà e Partito democratico, e il partito che fra i due uscisse perdente supererebbe comunque la soglia del quaranta per cento dei voti (per effetto, appunto, del «voto utile»).
E vengo al problema delle liste-arlecchino. Sartori ha ragione: molti piccoli partiti si aggregherebbero al carro dei due partiti più grandi. Però, la loro libertà d'azione dopo il voto verrebbe compromessa. Una cosa, per un piccolo partito, è disporre di un proprio simbolo e di autonomo finanziamento pubblico. Una cosa completamente diversa è rinunciare al simbolo (e, con esso, a un rapporto diretto, non mediato, col proprio elettorato) e dover per giunta fare i conti, per la spartizione dei finanziamenti, con il gruppo dirigente del grande partito a cui ci si è aggregati. Non credo che, dopo le elezioni, quei piccoli partiti disporrebbero ancora di molta libertà d'azione. Se così non fosse, d'altra parte, perché mai la Lega dovrebbe essere, come è, così ferocemente contraria al referendum? E perché mai Di Pietro (oggi politicamente molto più forte rispetto a quando vennero raccolte le firme del referendum) si sarebbe ora schierato per il «no» dopo avere sostenuto per tanto tempo il «sì»?
I nemici di Berlusconi temono che, con il nuovo sistema, egli possa rafforzarsi ulteriormente. Osservo che è sbagliato giudicare i sistemi elettorali alla luce di preoccupazioni politiche contingenti. Prima o poi, Berlusconi dovrà comunque lasciare il campo. Invece, il rischio, esasperato dall'attuale legge elettorale, di un'eccessiva frammentazione partitica peserà a lungo su di noi. Se non riusciremo, con il referendum, ad aiutare la classe politica a porvi rimedio."
Corriere della Sera.it articolo scritto da Angelo Panebianco il 13.06.2009
martedì 26 maggio 2009
sabato 23 maggio 2009
Cara la 7
Stavo guardando come ogni mattina la trasmissione Omnibus sulla 7, quando mi sono reso conto di una cosa; tra gli ospiti politici c'erano: Agnoletto con una semi sconosciuta lista di sinistra, Storace della Destra (ora dovrebbe aver cambiato nome aggregandosi con qualcun'altro), un rappresentante del Pd ed uno del PDL.
E i RADICALI? quando li invitano?
Per quanto non si possano condividere le loro idee, è indubbio che hanno un consenso ed una storia politica nel paese che è ben al di sopra del movimento di Agnoletto, e forse anche del movimento di Storace, eppure questi due esponenti sono stati invitati più volte mentre dei Radicali nessuno o comunque molto poco rispetto agli altri due esponenti in questione.
Data la storia dei Radicali ed il consenso nel paese, che non credo sia inferiore a quello della semi sconosciuta formazione di Agnoletto, e forse pari a quella di Storace (sto parlando di un numero di voti tra 1 ed il 3%), non trovo giusto che ai Radicali sia stato riservato uno spazio inferiore.
Questa a mio avviso è un'alterazione dei giochi democratici dove l'informazione ha comunque un ruolo importante, e trovo deludente il comportamento della 7 perché nell'informazione da loro proposta ho sempre visto una discreta indipendenza.
Per quanto conti poco da domani non guarderò più la 7 fintanto che non venga invitato un Radicale (sperando che non sia Pannella perché francamente non mi piace alla Tv).
Spero in un ravvedimento operoso, da un canale di informazione che tutto sommato stimo.
E i RADICALI? quando li invitano?
Per quanto non si possano condividere le loro idee, è indubbio che hanno un consenso ed una storia politica nel paese che è ben al di sopra del movimento di Agnoletto, e forse anche del movimento di Storace, eppure questi due esponenti sono stati invitati più volte mentre dei Radicali nessuno o comunque molto poco rispetto agli altri due esponenti in questione.
Data la storia dei Radicali ed il consenso nel paese, che non credo sia inferiore a quello della semi sconosciuta formazione di Agnoletto, e forse pari a quella di Storace (sto parlando di un numero di voti tra 1 ed il 3%), non trovo giusto che ai Radicali sia stato riservato uno spazio inferiore.
Questa a mio avviso è un'alterazione dei giochi democratici dove l'informazione ha comunque un ruolo importante, e trovo deludente il comportamento della 7 perché nell'informazione da loro proposta ho sempre visto una discreta indipendenza.
Per quanto conti poco da domani non guarderò più la 7 fintanto che non venga invitato un Radicale (sperando che non sia Pannella perché francamente non mi piace alla Tv).
Spero in un ravvedimento operoso, da un canale di informazione che tutto sommato stimo.
giovedì 30 aprile 2009
Il riscaldamento globale
Ancora leggendo i giornali o guardando la televisione, troviamo scienziati e politici che si ostinano a non considerare il problema emissioni inquinanti una priorità.
Eppure a me non sembra una cosa difficile da capire:
Eppure a me non sembra una cosa difficile da capire:
- La terra si sta riscaldando
- Il fattore antropico contribuisce a questo riscaldamento
- Il fattore antropico contribuisce a rendere l'aria irrespirabile (Lo so' che questo problema non necessariamente centra con il riscaldamento, ma ha la medesima soluzione)
Ne consegue che bisogna modificare "il fattore antropico" nello specifico cambiare l'attuale sistema di produzione.
Eppur nulla si muove in questa direzione anzi al contrario, sono proprio deluso.
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